Riflessioni notturne

Qualcuno, malato d’amore, una volta, mi disse che “il dolore è il segno supremo dell’empatia”.
Ed è vero: l’amore induce le persone a fare le cose più disperate.
Fortifica.
Strazia.
Cura.
Soffoca.
Urla.
Piange.
Ride.
Costringe all’apnea.
Diventa la tua unica ragione di respiro.
E’ capriccioso.
Trova mille modi per dire “addio”.
Trova sempre un modo di trasformare un “addio” in un “resta”. In un “sono ancora qui”.

Addio è una parola che io non dico mai.
Che mi spaventa.
E’ una parola che nessuno da dire, in fin dei conti.
In inglese è tutto più facile: “Goodbye”. Una sola parola per due significati.
Arrivederci.
Addio.
Come “I love you”, perchè un addio si nasconde in un arriverderci come l’amore si nasconde in un ti voglio bene.

Quando crediamo di aver dimenticato, il passato ritorna.
Ci coglie di sorpresa, una notte come tante,  mentre ascoltiamo la nostra canzone preferita; mentre, seduti sul balcone, fumiamo una sigaretta; mentre, passeggiando tra la folla, sfioriamo gli occhi la figura di qualcuno che sembra collegata al nostro passato.
Ci coglie impreparati.
Tutte le volte.
Odio et amo dai tempi di Catullo.
Il miglior dolore della tua vita sembra essere anche la tua più grande fonte di gioia.
Il tuo sostentamento è la tua rovina. La tua ossessione è la tua ragione di vita.

Mi siedo sull’orlo del mio quaderno e scrivo.
Il vento sfoglia le pagine, facendomi tremare per il freddo.
Seduta con i piedi a penzoloni su di un rigo, aspetto che la penna smetta di comporre.
Mi avvolgo in un foglio, cercando di usarlo come una coperta.
Non mi scalda.

Una storia

“Amanda, sei in casa?”
La voce arrivava chiaramente alle sue orecchie, come balsamo su una ferita, ma lontana. Lontanissima.
“Amanda”
Come se stesse bussando ad un’altra porta.
Mentre fumava sul balcone, comodamente seduta su una sedia di plastica, meditava sulla possibilità di aprire quella porta e farlo entrare nuovamente in casa sua.
Nella sua vita.
“Amanda sei qui?”
Entrò con passo lento in casa, persa nei suoi pensieri. Con gli occhi persi.
Nell’incedere verso la cucina, sentì chiaramente la voce del suo vicino che informava il ragazzo dell’errore compiuto, stanco dell’ennesimo colpo assestato alla sua porta.
Ancora una volta, la loro relazione era segnata dagli errori.
Lesse un messaggio arrivatole, ma non rispose.
“Non credo sia in casa” lo avvisò lui, non avendo sentito rumori da giorni provenienti da casa della ragazza.
Amanda si avvicinò alla porta, mettendo la mano sulla maniglia, pronta ad aprirla.
Se adesso bussa, apro, si disse.
“Torno un altro giorno” sentì dire al ragazzo.
Se adesso bussa, io apro.
Nessun colpo venne assestato dalla porta.
Inciampando nella felpa cadutale, si avvicinò al tavolo e inizio a scrivere in modo febbrile su un foglietto raccolto da terra.
Una lacrima cadde sul foglio, rigando le parole e sciogliendo l’inchiostro.
Se bussa, io apro.
Il telefono prese a squillare insistentemente, ma lei non rispose: lo lasciò sul tavolo assieme al portafogli e al pacchetto di sigarette appena aperto.
Amanda, con poco sforzo, si mise a sedere sul davanzale del balcone, con i piedi a penzoloni nel vuoto.
Fissava lo scorrere frenetico della vita cittadina: il mondo di formiche sotto di lei le ricordava quanto infinitesimale fosse la sua persona, se immersa in un panorama più ampio.
Nessuno avrebbe fatto caso a lei e alla sua assenza, pensò.
“Amanda?” sentì bussare timidamente.
Si tolse la scarpa, facendo leva con l’altro piede, ed essa precipitò verso l’asfalto, senza colpire nessuno degli uomini che passeggiavano tranquillamente sul marciapiede.
Un uomo, vedendo precipitare la calzatura, alzò gli occhi al cielo ed intravide a malapena la figura di Amanda.
Lei neanche, guardando in basso, riusciva realmente a distinguere il paesaggio: nulla aveva più senso.
“Amanda, apri. Amanda.”
Non prestò attenzione a ciò che avveniva attorno a lei, ma continuò a far dondolare i piedi in modo febbrile.
Il freddo del marmo avrebbe solleticato i piedi di chiunque, ma i suoi vennero a malapena scalfiti: quasi non le pungevano, così come il freddo del vento che le accarezzava le gambe non le provocava alcun brivido.
“Amanda! Apri!” urlò ancora una volta.
Canticchiando una vecchia ninnananna insegnatale da sua nonna quando ancora era bambina, la ragazza si alzò definitivamente in piedi sul davanzale.
“Amanda?” chiese ancora una volta, timidamente, supplicando.
I colpi divennero mano a mano più deboli e meno ritmici.
Amanda gettò uno sguardo ulteriore alla folla sotto di lei e provò a immaginarli, immersi nelle loro vite, in contesti ben diversi.
Pensò alla sua famiglia, al vuoto che avrebbe egoisticamente lasciato nelle loro vite.
Un colpo sordo eccheggiò nelle stanza, dovuto alla caduta di un vaso, urtato dalla ragazza.
“AMANDA?” urlò la voce dall’altro lato della porta.
Un primo, un secondo, un terzo, infine un ultimo, decisivo colpo vennero assestati alla porta.
I cardini della porta scattarono, provocandone il distacco dall’infisso.
“AMANDA?” urlò ancora una volta, non vedendola.
Sul pavimento della cucina, avanzi stantii di cibo mangiucchiato e vestiti sporchi, segno di una persona che non esce di casa da giorni.
Si diresse in ogni stanza, febbrilmente, aprendo ogni cassetto, nella speranza che fosse andata via.
Nulla era stato preso, nulla appariva violato: tra i maglioni ritrovò persino i beni monetari.
“Amanda” sussurrò, chiamandola con voce così fioca da essere inudibile persino alle sue orecchie.
Quando la finestra aperta catturò la sua attenzione, la folla si era già radunata attorno al cadavere ancora caldo di una ragazza dai capelli castani con il viso deturpato dall’impatto.
Urlarono, si avvicinarono, qualcuno si coprì gli occhi e li coprì ai bambini presenti, qualcun altro fece il segno della croce e affidò l’anima della ragazza a Dio.
Avanzando tra fogli e mozziconi di sigarette sparsi sul pavimento, il ragazzo si affacciò.
Non aprendo bocca, tornò verso il tavolo, madido di sudore.
Sul tavolo della cucina trovò un pacco di sigarette, un accendino quasi privo di gas e una penna senza tappo.
Con mano tremante, afferrò il foglietto che accompagnava quella penna e si costrinse a leggere.

Come sono vissuta, me ne vado: volando.
Non angustiarti, sei stato le mie ali.
E la ragione per cui adesso voglio averle.

Le disse addio, per la prima volta.
“Ti amo” mormorò quando ormai era troppo tardi: quando con lei era morto l’amore.
Nonostante ogni rimostranza, il suo corpo venne bruciato e le sue ceneri sparse su un roseto.

Amanda è rinata

Amanda era morta, sì, il 3 agosto di quest’anno.
Non scrivevo da allora, perché quando si é felici di solito non si perde tempo con carta e penna: il proprio tempo lo si spende in vita vera.
E’ rinata con l’autunno, il 15 settembre, il quale sembra essere arrivato senza scomodare nessuno, senza far rumore.
E’ entrato con una folata di vento e, come il migliore dei designer, ha arredato il terreno di foglie giallo e marroni.
E’ arrivato per precedere l’inverno ed il bianco della neve e per colorare ciò che tra poco sarà bianco.
Mi sento un po’ bianca anche io.
Ascolto la canzone che mi cantasti sul prato tra mille sorrisi: sembra scritta per me, vibra come marzo che scioglie la neve, come gli amori che sbocciano e appassiscono.
Non so dove sei.
Non so se ancora ti brillano ancora gli occhi, come quel giorno, o se i tuoi occhi sono diventati biglie di vetro.
Ti aspetterò in quella scatola in cantina, tra la polvere ed il ciarpame delle cose vecchie e le cartoline di quel viaggio insieme.
Tra le cose che profumano di ricordi.

“Sono ora stesa sulla paglia umida
dell’amore
Tutta sola con tutti gli altri tutta sola disperata
Ragazza di latta ragazza arrugginita”
(Prevert)

Il balcone

 

 

 

 

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“Amanda, sei in casa?”
La voce arrivava chiaramente alle sue orecchie, come balsamo su una ferita, ma lontana. Lontanissima.
“Amanda”
Come se stesse bussando ad un’altra porta.
Mentre fumava sul balcone, comodamente seduta su una sedia di plastica, meditava sulla possibilità di aprire quella porta e farlo entrare nuovamente in casa sua.
Nella sua vita.
“Amanda sei qui?”
Entrò con passo lento in casa, persa nei suoi pensieri. Con gli occhi persi.
Nell’incedere verso la cucina, sentì chiaramente la voce del suo vicino che informava il ragazzo dell’errore compiuto, stanco dell’ennesimo colpo assestato alla sua porta.
Ancora una volta, la loro relazione era segnata dagli errori.
Lesse un messaggio arrivatole, ma non rispose.
“Non credo sia in casa” lo avvisò lui, non avendo sentito rumori da giorni provenienti da casa della ragazza.
Amanda si avvicinò alla porta, mettendo la mano sulla maniglia, pronta ad aprirla.
Se adesso bussa, apro, si disse.
“Torno un altro giorno” sentì dire al ragazzo.
Se adesso bussa, io apro.
Nessun colpo venne assestato dalla porta.
Inciampando nella felpa cadutale, si avvicinò al tavolo e inizio a scrivere in modo febbrile su un foglietto raccolto da terra.
Una lacrima cadde sul foglio, rigando le parole e sciogliendo l’inchiostro.
Se bussa, io apro.
Il telefono prese a squillare insistentemente, ma lei non rispose: lo lasciò sul tavolo assieme al portafogli e al pacchetto di sigarette appena aperto.
Amanda, con poco sforzo, si mise a sedere sul davanzale del balcone, con i piedi a penzoloni nel vuoto.
Fissava lo scorrere frenetico della vita cittadina: il mondo di formiche sotto di lei le ricordava quanto infinitesimale fosse la sua persona, se immersa in un panorama più ampio.
Nessuno avrebbe fatto caso a lei e alla sua assenza, pensò.
“Amanda?” sentì bussare timidamente.
Si tolse la scarpa, facendo leva con l’altro piede, ed essa precipitò verso l’asfalto, senza colpire nessuno degli uomini che passeggiavano tranquillamente sul marciapiede.
Un uomo, vedendo precipitare la calzatura, alzò gli occhi al cielo ed intravide a malapena la figura di Amanda.
Lei neanche, guardando in basso, riusciva realmente a distinguere il paesaggio: nulla aveva più senso.
“Amanda, apri. Amanda.”
Non prestò attenzione a ciò che avveniva attorno a lei, ma continuò a far dondolare i piedi in modo febbrile.
Il freddo del marmo avrebbe solleticato i piedi di chiunque, ma i suoi vennero a malapena scalfiti: quasi non le pungevano, così come il freddo del vento che le accarezzava le gambe non le provocava alcun brivido.
“Amanda! Apri!” urlò ancora una volta.
Canticchiando una vecchia ninnananna insegnatale da sua nonna quando ancora era bambina, la ragazza si alzò definitivamente in piedi sul davanzale.
“Amanda?” chiese ancora una volta, timidamente, supplicando.
I colpi divennero mano a mano più deboli e meno ritmici.
Amanda gettò uno sguardo ulteriore alla folla sotto di lei e provò a immaginarli, immersi nelle loro vite, in contesti ben diversi.
Pensò alla sua famiglia, al vuoto che avrebbe egoisticamente lasciato nelle loro vite.
Un colpo sordo eccheggiò nelle stanza, dovuto alla caduta di un vaso, urtato dalla ragazza.
“AMANDA?” urlò la voce dall’altro lato della porta.
Un primo, un secondo, un terzo, infine un ultimo, decisivo colpo vennero assestati alla porta.
I cardini della porta scattarono, provocandone il distacco dall’infisso.
“AMANDA?” urlò ancora una volta, non vedendola.
Sul pavimento della cucina, avanzi stantii di cibo mangiucchiato e vestiti sporchi, segno di una persona che non esce di casa da giorni.
Si diresse in ogni stanza, febbrilmente, aprendo ogni cassetto, nella speranza che fosse andata via.
Nulla era stato preso, nulla appariva violato: tra i maglioni ritrovò persino i beni monetari.
“Amanda” sussurrò, chiamandola con voce così fioca da essere inudibile persino alle sue orecchie.
Quando la finestra aperta catturò la sua attenzione, la folla si era già radunata attorno al cadavere ancora caldo di una ragazza dai capelli castani con il viso deturpato dall’impatto.
Urlarono, si avvicinarono, qualcuno si coprì gli occhi e li coprì ai bambini presenti, qualcun altro fece il segno della croce e affidò l’anima della ragazza a Dio.
Avanzando tra fogli e mozziconi di sigarette sparsi sul pavimento, il ragazzo si affacciò.
Non aprendo bocca, tornò verso il tavolo, madido di sudore.
Sul tavolo della cucina trovò un pacco di sigarette, un accendino quasi privo di gas e una penna senza tappo.
Con mano tremante, afferrò il foglietto che accompagnava quella penna e si costrinse a leggere.

Come sono vissuta, me ne vado: volando.
Non angustiarti, sei stato le mie ali.
E la ragione per cui adesso voglio averle.

Le disse addio, per la prima volta.
“Ti amo” mormorò quando ormai era troppo tardi: quando con lei era morto l’amore.
Nonostante ogni rimostranza, il suo corpo venne bruciato e le sue ceneri sparse su un roseto.

AMANDA SILBERMOND
27/08//95-oggi, domani e i giorni seguenti

Il vero amore è negli occhi dei gatti vagabondi

I’ve got a Nightmare to remember
I’ll never be the same
What began as laughter
So soon would turn in pain.

Le ultime note si persero tra i muri della mia camera.
La decisione di andar via era arrivata all’improvviso, in seguito all’ennesima lite scoppiata con mio padre, per una banalità facilmente trascurabile.
Gettai in valigia alla rinfusa qualsiasi cosa trovassi, compreso un maglione mai indossato, e varcai la soglia, con le urla di mio padre ancora dietro le spalle.
Avrebbe potuto dire qualsiasi cosa, non avrei dato peso a nessun altra delle sue parole.
Non più.
I miei piedi parvero conoscere a memoria la strada da percorrere, perciò continuai a muoversi quasi per inerzia.
Vagai per tutta la notte, incurante delle miglia che stavo interponendo tra me e la mia famiglia.
Mi limitai a camminare, mettendo un piede davanti all’altro senza sapere dove andare.
Dicembre sa essere freddo quando vuole, mi ritrovai a pensare, seguendo il fil rouge delle mie emozioni.
Il vento mi solleticava le dita dei piedi, intirizzendomi il naso già congelato.
Dove sarei andato, non lo sapevo.
Cosa avrei fatto, lo ignoravo.
Dove avrei potuto trovare rifugio, mi era ignoto.
Cosa avrei mangiato nei giorni a seguire,  era un dato ancora da puntualizzare.
Con la mia fida Zen sulle spalle, mi sedetti su una panchina a contemplare il cielo notturno, che tanto m’aveva affascinato da bambino e che non smetteva di catturare il mio sguardo.
L’universo è un mistero, disse qualcuno.
Il mistero fa figo, avevo aggiunto, quindi l’Universo è figo e siccome siamo tutti nell’Universo, siamo tutti fighi.
Al ricordo di quei momenti, un sorriso affiorò sulle mie labbra.
Quei giorni mi parvero improvvisamente lontanissimi, persi nel tempo e nella mia memoria.
Teorie assurde, le mie: le bollavano tutti così.
E forse lo ero davvero, assurdo.
O forse ero solo un mistero, così come il mio destino da quella notte.
Dovetti, con rammarico, ammettere la sconsideratezza della mia decisione, sconsiderata quanto affrettata.
La consapevolezza avrei dovuto pensarci meglio mi colpì come un pugno allo stomaco, che brontolava affamato.
Complimenti, Johan.
Ancora una volta avevo dimostrato di essere lo sconsiderato descritto dalla maggior parte delle persone che mi rivolgevano critiche.
Mi tornò alla mente il volto di Jeanette.
Si ama per “noia”, secondo alcuni, perché il tedio cerca nei sentimenti un riscatto, un metodo per combattere se stesso, un antidoto per salvarsi, poiché preferisce gettarsi tra le braccia di qualcuno piuttosto che sopravvivere a se stesso.
Capisci di amare una persona quando la perdi o piuttosto quando perdi la paura di amare per la prima volta, amare di nuovo, amare con dolcezza, con rabbia, con gelosia?
Comprendi di esserlo quando i suoi baci ti sono negati o piuttosto quando tremi al solo pensiero di rubargliene uno?
Diventa improvvisamente chiaro che ami quando trovi la tua Jeanette, quando hai il coraggio di accogliere nella tua vita il ciclone di emozioni che ella provoca in te, quando ti scordi di te perché il tuo cuore improvvisamente è lei.
Zen, appoggiata accanto a me sulla panchina, sembrava volermi riportare alla memoria i lunghi pomeriggi che avevo trascorso componendo rapsodie.
Ti si tatua addosso, l’amore, raggiungendo luoghi a te invisibili e continui a sentirlo, come in una sorta di sindrome dell’arto fantasma.
Ti resta appiccicato, come il francobollo di una lettera dimenticata in un cassetto, tra le scartoffie, ma le cui parole sono ancora vive in te.
A quei tempi era il mio piacere quotidiano, modesto, senza pretese di alcun genere.
Poi qualcosa cambiò e con quel qualcosa cambiai anch’io.
Misi da parte le mie rapsodie, le note che avevo usato, i miei sogni; accantonai l’idea che avevo di lei.
Ed ora eccomi: solo, in un parco.
Il rumore metallico delle catene delle altalene che ondeggiavano sospinte dal vento mi riportò alla realtà.
Ancora una volta mi ero perso nei miei pensieri.
Non ci posso credere, mi ritrovai ad affermare mentalmente, prendendo nota dell’ennesimo trip a cui avevo sottoposto i miei neuroni.
I miei fratelli se la sarebbero cavata benissimo e di certo non avrebbero perso tempo con inutili pensiri.
Loro sì che se la sarebbero cavata.
Loro non sarebbero scappati di casa in quel modo.
Loro avrebbero trovato vie diplomatiche per risolvere la situazione.
Furono per anni il mio incubo, loro. E allo stesso tempo la mia ancora di salvezza.
Dopo una vita trascorsa accanto a loro o, piuttosto, al riparo della loro ombra, ero da solo a combattere contro la notte e contro i demoni del mio passato.
E’ strano come la notte porti consiglio.
E’ assurdo come di notte si abbia il coraggio di dirsi la verità, di accendere la luce sul proprio buio, quando nessuno può vederla.
Avevo vissuto nel grigio per molto tempo, nel mezzo: tra bianco e nero, tra arte e musica, tra vita e morte.
In una situazione di limbo, d’instabilità eterna.
Attorno a me, tra le luminarie natalizie intermittenti, mi facevano compagnia miliardi di stelle all’apparenza indifferenti.
Mi guardano, so che mi guardano.
Con il conforto di quella considerazione, mi feci coraggio e mi preparai ad affrontare la notte più gelida della mia esistenza.
Io, perennemente infreddolito, passo una notte al freddo…un eufemismo del destino. Un eufemismo bello e buono!
Tremai e lasciai che un sospiro fuoriuscisse dalle mie labbra congelate dalla temperatura.
Stavo ancora ragionando, quando un rumore attrasse la mia attenzione.
Non seppi bene cosa mi spinse a voltarmi, ma quando nella mia visuale entrò il corpo esile di un gatto, capii improvvisamente che la fuga era stata la scelta giusta.
Quel gatto.
Ero uscito di casa per incontrare quel gatto
, realizzai con un brivido.
Mi alzai con lentezza, nel tentativo di avvicinarmi a lui il più possibile senza spaventarlo, ma uno dei miei movimenti lo irritò visibilmente, poiché immediatamente si rizzò e corse via.
Altro non potei fare che ricorrerlo, senza sapere neppure il motivo della mia folle corsa al suo seguito.

Successe tutto così in fretta. Ed in effetti non saprei indicare con certezza le coordinate temporali della mia avventura.
Lo chiamai Comeunastella, in onore di tutti gli astri che quella notte mi fecero compagnia nel mio lungo viaggio verso quella che sarebbe diventata la mia nuova casa: la strada.
Casa è dov’è il cuore, recita un vecchio proverbio.
Se pioverà comprerò un ombrello per proteggermi, se nevicherà una coperta per riscaldarmi.
Il mio animale da compagnia divenne quel gatto randagio dal pelo scuro, insolitamente attratto da un umano quale ero io.

Facemmo amicizia in modo singolare, rincorrendoci tra i vicoli come due cuccioli.
Prima che il Sole fosse sorto, lui mi scelse.
                                                                             Fu così che cominciò.

Non fu semplice per me abituarmi ai ritmi della strada, ma in breve mi adattai alla vita urbana.
Trovai il metodo più efficace per cibarmi, iniziando con il comprare alimenti da discount con i pochi soldi che avevo risparmiato negli anni e portato con me nella mia fuga.
La sera, in quelle strade, la tristezza arrivava senza neanche bussare all’uscio del mio cuore: pretendeva di entrare, a volte forzava la porta.
Imparai l’altruismo tipico degli abitanti del tessuto urbano, dividendo le mie cibarie con il mio piccolo amico peloso.
Iniziai a dormire per strada, trovando rifugio nelle stazioni o sulle panchine come qualsiasi barbone degno di questo nome, prendendo il posto di coloro che per anni avevo guardato con curioso sospetto.
Ogni notte, accoccolato su una panchina o una gradinata, condividevo il mio calore corporeo con Comeunastella, che era solito acciambellarsi tra le mie gambe accavallate.
Avevo a malapena diciotto anni ed ero il proprietario di un gatto randagio precedentemente privo di padrone, vivevo per strada alla mercé delle intemperie.
Ma, a differenza della maggior parte dei ragazzi della mia età, lasciavo che il sonno m’avvolgesse già alle dieci, riverso su una panchina con il ronfare del mio micio a farmi compagnia.
Attorno a me, i rumori della città si spegnevano a poco a poco fino a sparire del tutto.
Gli sguardi delle persone attorno a me non mi ferirono mai particolarmente: tante erano le persone che mi fissavano con sdegno anche prima della mia fuga.
Attirare sguardi benevoli non era mai stata una mia prerogativa, probabilmente a causa dei miei capelli un tempo lungo o per il mio mancato senso d’omologazione.
Che la società dettasse stili e modi d’essere, mi era chiaro, così come la necessità di seguirli.
Non ero mai stato propriamente il prototipo del ragazzo ben voluto dalla società, dovetti ammettere.
“Che stai facendo?” domandò una voce femminile, dal tono velatamente irritante.
“Dormo” le risposi, senza neanche aprire gli occhi.
“No, non è vero. Sei sveglio” constatò lei, visibilmente contrariata dalla mia bugia.
“Dormivo” mugugnai nuovamente, accarezzando Comeunastella con il dorso della mano.
“Sulla panchina?” mi domandò, sicuramente accigliandosi a giudicare dal tono usato.
Mi issai a sedere improvvisamente, provando la caduta accidentale del mio gatto domestico che atterrò sull’asfalto con un rantolo.
“Cosa vuoi?” chiesi, guardandola per la prima volta.
Nel buio della sera, con la luce del lampione a coronarle il capo, il viso di quella ragazza così petulante mi suscitò un moto di antipatia quasi immediato.
“Mi chiamo Amanda”
“Chi te lo ha chiesto?” le domandai, dimostrando un astio a me non usuale.
Mai mi ero comportato così con qualcuno, men che meno con una ragazza, pensai, senza riuscire tuttavia a trovare un metodo per porre fine alle mie risposte al vetriolo.
Cercai Comeunastella, per sfuggire alla petulante presenza della ragazzina di fronte a me, e lo ritrovai in un angolino a pulirsi il pelo.
“Mi chiamo Amanda” ripeté ancora una volta.
“Johan” le dissi, alla fine, cercando di rivolgerle il sorriso più genuino che fossi in grado di fare.
“Posso rimanere con te?” domandò sedendosi sulla panchina sulla quale stavo dormendo, quasi dando per scontato la mia risposta.
Ero scappato di casa per vivere in solitudine ed eccomi insieme ad una ragazzina sconosciuta, di cui sapevo solo il nome, intenta ad accarezzare un’amabile Comeunstella, acciambellatosi sulle sue ginocchia.
Qualcosa mi trattenne dal far presente il mio desiderio di solitudine: accettai la sua permanenza sulla quella che ormai, per abitudine, identificavo come la mia panchina.
“Questo parco è tuo?” mi domandò all’improvviso, con i suoi occhi verdi spalancati dalla curiosità.
“Sì” risposi, gonfiando il petto, sperando con tutte le mie forze di non apparire ridicolo “Questo posto è tutto mio. ”
Amanda sorrise della mia pantomima, vedendomi imitare Napoleone, e lo stesso feci io spinto dalla sua risata cristallina.
“Però questo gatto è mio davvero. Si chiama Comeunastella” le spiegai, sedendomi accanto a lei ed accarezzando il soggetto della frase, come a testimoniare la veridicità delle mie parole.
“Piacere, piccolo Comeunastella” si presentò lei, quasi fosse umano.
Il felino, da buon traditore, si lasciò accarezzare amorevolmente il dorso da quella ragazza a me sconosciuta.
“Quante ragazze si sono già sedute su questa panchina, prima di me, bel Casanova?” mi canzonò, fingendo un serio interesse.
“Dozzine, probabilmente” risposi, vantandomi di conquiste inesistenti “Centinaia… Migliaia, milioni…Non ricordo cosa viene dopo i milioni, ma sicuramente anche quelli”  
Finse di credermi e non mi domandò più nulla al riguardo, troppo impegnata a ridere sotto i baffi della mia bugia.
“Cosa ti porta sulla mia panchina?” le domandai, ragionando sulla stranezza di quella situazione.
Amanda decise di ignorare la mia domanda e mi si lanciò contro, abbracciandomi più forte che potè.
Probabilmente fu lo shock, pensai, ad anestetizzarmi: non reagì.
Lasciai che mi abbracciasse, lei e quel suo odore di patchouli.
Sussultai, colto alla sprovvista. 
“Che stai facendo?” balbettai, incredulo, a quella sconosciuta che mi stava abbracciando. 
“Ti stringo.”
“Perché?”
“Ti stringo” sentenziò lei, aumentando lo stretta “Così spremo via il dolore.”

 

Viaggio

Andiamo in un posto lontano lontano, buffo, dove le persone camminano sulle mani e ci siano tante paperelle? Andiamo in un posto in cui ogni teiera é sbeccata e le tazze sono tutte diverse e hanno mille colori, compresi i colori non ancora scoperti? Andiamo in un posto in cui ci sia cosi tanto silenzio da sentire come unica colonna sonora il rumore del cuore? Un luogo dove il tempo scorra il contrario così da poter essere ancora insieme o non scorra per niente affinché io possa rimanere per sempre tra le tue braccia?
Partiamo insieme?

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Non chiamarmi brava bambina

Sono strane le etichette: ti si cuciono addosso come marchi di fabbrica.
Si ritiene che l’etichetta più dannosa sia quella affibbiata a colei che sta con tutti senza stare con nessuno, che si concede senza remore e senza rimorso.
Io quest’etichetta non l’ho mai avuta addosso. Quasi mi domando, con un sorriso degno di molti dei nostri politici, chi mai potrebbe suggerirla per la sottoscritta.

Nel mio codice a barre c’è scritto “brava ragazza”, tra una riga e l’altra “chiesa”, “famiglia”, “niente alcool”, “tutta tranquillità”.
Tanto falso, in fin dei conti, non lo é: a me di feste e rock ‘n’ roll non me ne è mai importato un granché. Per non parlare della musica house, tze!
Eppure, nascosto in quel codice a barre, c’è qualcos’altro, ma nessuno sembra disposto a vederlo.
E’ strano non essere mai presa sul serio.
E’ strano il tono usato da chi ritiene che tutto gli sia concesso, tanto non te la prenderai poiché “è solo uno scherzo”.
Sono strani gli sguardi di chi crede, con un sorriso più che beffardo, che ogni doppio senso mi sia ignoto.
Altrettanto strano è sentirsi dire “Vabbé ma tu non lo puoi capire”.
E’ successo ancora. Succede sempre. E succederà.
Tu tu tu tu tu.
Quanta accusa in questi tu, quanta altezzosità, quanto egocentrismo.
Quanto nervosismo, anche. Tutto mio.

one month ago

one month ago

É passato soltanto un mese,
resterai con me se ti regalerò il mio cuore
e da lì potrai osservare per ore ed ore
quanto é grande il mio amore.
Noi siamo perfetti, noi siamo infinito
Così in alto da toccare il cielo con un dito.
Tu sei quella con cui vorrei stare,
quella che vorrei sposare
come hanno fatto le nostre anime
che si sono lavate con le lacrime.
Per un passato triste e sofferente
la cura cura é il nostro animo ardente
Di passione che ci porta ad avere
un senso innato del dovere.
Il nostro amore non é un obbligo,
che va fatto conservare in frigo,
va fatto, come noi, crescere
e volare via come cenere.
Per me sei stata inaspettata,
mi hai reso non più nota stonata,
ma nota positiva di una melodia inventata.
Tu mi porti il sorriso,
tanto da essere ormai stato inciso
sul mio stanco viso.
É una cosa nuova e bella per me
avere al mio fianco una dea come te.
La tua dolcezza nascosta
mi parla piu di ogni tua risposta
Lo so ammetterla ti costa,
magari per una passata batosta.
Il mio ti amo viene dal cuore,
da buon esploratore scopri il mio caldo amore

Carlo Schieda

.

.

Quando conobbi i tuoi occhi
Decisi di mettermi per mare.
Amai subito il solcare
Oceani,
Immani,
Tempestosi, potenti come i rintocchi
Che squarciano i sospiri notturni.

Perché stai male?
Chi inquinò quegli occhi di mare?
Quale nave, colma di dolore,
Ti è naufragata nel cuore?

Si è stagnata quella potenza,
Non l’oceano di acque più vedo
Ma di ghiaccio e gelo.
Sono senza onde né vento,
Sono senza te,
Sono senza.

A vele abbassate.
Eccomi! Marinaio nell’Artico
Di un animo spento.
Scavo con le mani, coi remi,
Spossato, con i polmoni pieni
Di gelo, labbra arse di freddo,
Ma, anche solo, persevero.

Troverò il tuo cuore,
Troverò le reliquie d’un passato d’amore.

(In collaborazione con BlackDawn)

Shh

Che bello sarebbe il mondo, se non si parlasse.
Non esisterebbero la musica, la poesia declamata, il cinema e il teatro, me ne rendo conto.
Niente comunicazione, niente parole, nè futili litigi.
Eppure esisterebbero gli amori sbocciati da sguardi timidi.
Esisterebbero gli sguardi, i baci, le carezze insieme agli abbracci.
Meno scuse e meno bugie.
Il silenzio sarebbe usato e libero dal risentimento: un silenzio pulito e fatto di pregi, senza inganni.
Continuerebbe ad esistere la scrittura, che sgorga spontanea.
Un addio, un grazie: scritti sono da conservare. A loro il tempo non può niente.
Esisterebbe la vita, priva di stupidi discorsi campani in aria su cose non esprimibili che la gente ti deve inculcare “perchè è così”, di stupidi litigi nati da una frase di troppo, dii sogni distrutti da una frase che ti spacca in due.
Non ci sarebbero le parole a farci da aura, saremmo privi di maschere.
La demagogia non troverebbe spazio: le cose sarebbero come sono.Senza orpelli.
Esisteremmo noi.
Semplicemente.
Non so quanto resisteremmo.
Ci sono cose che bisogna dire, perchè non bastano gli sguardi o i gesti per dissipare i dubbi.
Semplicemente parliamo.

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Le persone con cui riesci a stare in silenzio sono poche.La gente pensa che stare insieme voglia dire parlare e così le parole diventano imbarazzo, panico. I vuoti diventano momenti da riempire.
Stare in silenzio è pienezza, è capirsi.
La felicità di  sentire una mente collegata alla tua è inspiegabile, è come quando senti dentro di te un ritmo simile al battito di un cuore.
E’ sentirlo quel battito, perchè nel silenzio anche il cuore fa rumore.

Stare insieme a qualcuno, in silenzio, è condividere l’essenziale.

wwayne

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CUCINA FUORI SEDE

Per sopravvivere con gusto alla vita universitaria da fuori sede.

Euridice, scrive. ______________________________________________

Euridice, scrive. E non sarà mai sola in questo dannato, caldo inferno.

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